Siamo arrivati ad uno spiano e davanti a noi c’è una casa in pietra lavica che sembra essere abbandonata. Ci abbassiamo per non essere visti e ci mettiamo un po’ più vicini.
Guardo il cielo che sembra quasi schiacciarci al suolo; è di un colore azzurro intenso e non si vede nemmeno una nuvola nemmeno a pagarla! La sua immensità mi fa quasi paura che smetto subito di guardarlo per cercare alcuni riferimenti che possano tranquillizzarmi.
«A che altezza saremo?» – penso e nel frattempo, girando la testa verso destra, riesco a vedere il carcere nuovo. «E’ davvero un bel posto dove costruire un carcere: anche se scappano, dove possono andare? Qui c’è solo la montagna e da qui non si va da nessuna parte» – rifletto e mi accorgo che, accanto a me, ci sono alcune piante di avena selvatica. Istintivamente ne strappo un po’ e la getto alle spalle di Davide che, nel contempo, si è girato per dire qualcosa a Puccio, secondo me, sempre troppo distratto sulla nostra missione. Le piccole spighe di questa strana pianta si attaccano sul suo maglione grigio e un paio finiscono sui pantaloni di velluto viola, proprio all’altezza del sedere. Mi scappa una risatina spontanea che riesco a trattenere a malapena girandomi verso Marcello che, notando tutto, mi sorride mostrandomi un OK con la mano destra.
D’improvviso un fischio ci paralizza tutti e quattro.
Nero si alza sulle sue zampe, drizza le orecchie e punta verso il sentiero che ci ha portato fin qui. Dopo un paio di secondi inizia a correre tornando indietro da dove siamo venuti.
«Accidenti!» – bisbiglio io – «E adesso che facciamo?»
«Non preoccuparti» – risponde mio fratello – «Non ce ne sarà bisogno: qui non c’è nessuno.»
È vero. Non c’è nessuno; la casa sembra proprio deserta: senza porta né finestre, ha davvero l’aria di essere stata abbandonata da anni.
Ci mettiamo in piedi.
«Ma allora non è vero che sta qui.» – inizia Puccio – «Sono le solite storie che racconta mio cugino.»
«Forse si» – gli risponde Marcello.
«E le pecore allora?» – chiedo io.
«Che c’entrano le pecore, Alessandro?» – interviene Davide.
«Dove stanno?»
«Le avranno portate via.»
«Ma da qui non si va da nessuna parte.»
«Che ne so io! Piuttosto cerchiamo di tornare che nostra madre si preoccupa.»
«Aspettate.» – ci interrompe Marcello – «Qui c’è qualcosa che non mi convince. Guardate: li l’erba è tutta bruciata.»
«Hai ragione.» – confermo io – «Cosa significa secondo te?»
«Non lo so ma non mi piace. Forse potrebbero essere atterrati gli UFO su questa montagna.»
Mi sento raggelare. Gli UFO? E come sono fatti questi UFO? Nessuno lo sa o, meglio, nessuno è mai tornato indietro per raccontarlo. Ma io non mi sento pronto per affrontare gli UFO. Non lo sono nemmeno per affrontare il gigante e sinceramente desidero tantissimo tornare indietro.
«Avviciniamoci alla casa; forse li troveremo qualche cosa.»
«Noi dobbiamo tornare» – dichiara schiettamente Puccio. «Io e Davide dobbiamo uscire con nostra madre.»
Detto questo, alzandosi in piedi, torna indietro per la strada che, pochi minuti prima, aveva preso anche Nero. Davide lo segue dopo averci salutato con un gesto della mano.
«E adesso? Come al solito ci hanno lasciati soli.» – inizio io un po’ seccato.
«Puccio non mi è mai sembrato molto convinto di salire qui. Facciamo così: ci avviciniamo a quella casa, vediamo cosa c’è dentro e poi ce ne torniamo anche noi; va bene?»
In fondo la cosa sembra semplice. «OK» – gli dico – «però sbrighiamoci.»
Ci alziamo e, con circospezione, ci avviciniamo alla casa.
Sento i miei piedi pesanti, come se dentro le scarpe ci fossero chili di terra, e il mio respiro è un po’ affannoso per via dell’odore intenso emanato da tutta questa vegetazione selvatica che ci circonda. Ma soprattutto sono stordito da tutto questo… silenzio! Un silenzio pesante, quasi opprimente, che mostra tutto quello che mi circonda in un modo surreale e fantastico.
Quanti metri ci separano ancora dalla casa? Dieci? Venti? Duecento?
La verità è che mi sembra di camminare da ore ma continuo a vedere quel mucchio di pietre immobile, come se, invece, non mi fossi mosso nemmeno di un solo passo.
Guardo il cielo che, adesso, sembra essere diventato bianco. Gli uccelli volano bassi ma tutti i suoni sono ovattati e sembrano provenire da mondi lontani, tempi infinitamente lunghi.
Mi volto e vedo ancora il carcere che adesso mi sembra lontanissimo. Sento un improvviso bisogno di orinare e mi chiedo se riuscirò a tenerla finché non saremo tornati indietro, ammesso di farcela.
Vedo mio fratello abbassarsi di scatto e, d’istinto, lo faccio anch’io. Siamo davvero giunti alla casa: la casa del gigante.
Noto una lucertola che si infila tra due sassi che fanno parte della struttura dell’abitazione e subito penso che andrà di sicuro a infilarsi sotto il letto o, magari, dietro il gabinetto in attesa di poter uscire di nuovo.
Da dentro non si sente nulla: la casa è davvero disabitata.
Ci alziamo lentamente e cerchiamo di guardare da dentro un’apertura formatasi a causa di alcune pietre mancanti.
Dentro è molto buio e riesco a distinguere ben poche cose: c’è una sedia in fondo, con lo schienale appoggiato al muro; c’è anche un mobile rozzo sul lato sinistro con sopra delle corde.
«Servono per legare gli intrusi» – penso e Marcello, quasi sentendo il mio pensiero, annuisce con aria preoccupata.
Continuo a sentire solo dei suoni molto deboli, come se passassero da un filtro di gommapiuma, e non riesco ancora a spiegarmi il motivo. Guardo ancora dentro e vedo un’altra cosa che mi fa sussultare: proprio di fronte a noi, sul lato parallelamente opposto al nostro, c’è l’entrata della casa; una porta di legno semi distrutta chiude un uscio di forma irregolare facendo comunque passare attraverso alcuni fasci di luce che rendono tutto ancora più tetro.
In questa casa potrebbe esserci qualsiasi cosa e noi stiamo cercando di vederlo da questo buco. Osservo ancora le pietre che compongono il muro e poi guardo mio fratello che sembra volermi dire qualcosa. Si agita molto e pare quasi urlarmi in faccia, ma io non riesco a sentirlo. Lo guardo, ancora intontito, fino a quando sento un fischio, stavolta proveniente dall’altro lato della casa.
D’improvviso una gran quantità di suoni e rumori sembrano arrivare tutti alle mie orecchie e l’impatto mi immobilizza.
Sento il vento, gli uccelli, i clacson delle auto in lontananza – che girano intorno al carcere – e, soprattutto, sento delle campane.
«Sono le pecore: il gigante è qui» – adesso riesco a sentire anche mio fratello e capisco subito il suo stato di agitazione. «Andiamocene di corsa.»
Non me lo faccio ripetere un’altra volta: mi alzo e mi preparo mentalmente quella che ha tutta l’aria di essere una ritirata strategica.
«Finalmente ce ne andiamo» – penso – «Ora ce ne scappiamo di gran corsa!» – mentre vedo già mio fratello precedermi.
Sto per mettere le ali ai piedi quando sento ancora un altro rumore: qualcuno sta aprendo la porta. Quest’ultimo evento mi fa pensare che avrei battuto tutti i record di corsa in discesa dalle montagne, ma ancora non mi muovo.
«Aspetterò finché non entra per vedere com’è fatto» – continuo a pensare ciclicamente e ripetendomi ogni volta che devo essere impazzito. «Non mi prenderà.»
Mi volto nuovamente verso l’apertura e vedo la porta aprirsi.
I pochi fasci di luce lasciano il posto ad un rettangolo abbagliante. Al centro riesco a distinguere un’ombra.
Sgrano gli occhi, cerco di mettere a fuoco, ma non riesco a vedere meglio di una macchia scura circondata da un bagliore accecante. Sento però di essere visto da lui che, immobile, mi fissa dall’uscio di casa sua.
Non so quanto tempo siamo rimasti a guardarci ma giuro che è stato abbastanza.
Sento le mie gambe muoversi e portarmi lontano da quella casa, come se fossero guidate da un’altra volontà. Chiunque sia a farmi correre adesso, credo che abbia indiscutibilmente ragione.
Finalmente mi volto per vedere dove stavo correndo: vedo fili d’erba secca alzarsi in aria, terra e polvere sollevarsi ad ogni mio passo, insetti di ogni tipo passarmi tra i capelli. Ma non importa: finalmente me ne stavo andando e nessuno sarebbe riuscito a prendermi.
Quasi raggiungo mio fratello e ci ritroviamo al punto dove Puccio e Davide ci avevano abbandonato: adesso inizia la parte più ripida ma per noi è uno scherzo.
Mi giro verso la casa che adesso mi sembra così lontana…
– o – o – o – o – o –
«Muoviti scimunito! Non lo vedi che sei in mezzo alla strada?»
«Chi?… Cosa?…» – Mi sento cadere da un’altezza indescrivibile, ritrovandomi di fronte ad una strada incredibilmente larga e impensabilmente lunga. Credo di aver sognato davanti ad essa, con la mia ventiquattrore adesso pesantissima – fino a trenta secondi fa non pesava quasi nulla – e con un’aria, appunto, da scimunito.
Mi sposto per far passare il mio cortese amico che mi ha riportato nel mondo reale senza guardarlo con cattiveria. Lui, invece, sembra aver bevuto il caffè con il sale.
Sto per riprendere a camminare, poi mi volto per un’ultima volta.
Dov’era il deposito di mio padre, adesso c’è un negozio in franchising di informatica; dov’era la stradina senza sbocco che curvava a sinistra, adesso c’è uno slargo a quattro corsie che immette alla circonvallazione.
La montagna non c’è più.
Chissà poi se era davvero una montagna; certamente sarà stata una collinetta alta non più di venti metri.
E il gigante? Che fine avrà fatto?
Sorrido pensando contemporaneamente due cose: la prima è che, se si potesse avere la fortuna di scegliere un posto dove morire, io sceglierei sicuramente questo; l’altra è che, se veramente è esistito un gigante della montagna, io sono stato l’unico a vederlo.