09 novembre 2006

Totally Free


Totally free
(And now you’re lonely)

You’re my darkness - You’re my fool
You’re my sweetness and you play my rules
And your tender and your schools
Are my fender ‘cause I swim in a pool!

You’ve got somethin’ but what you say
Is a warnin’ to my wish of stay!
And your laughing or your tears
Are apologies to hide your fears!


You know nothin’ - so you say
But you’re runnin’ in a game you’ll play
You’re so funny when you’re gay
But your glory is what I hate!

You’ve got money - You’ve got faith
But, oh my honey, you ain’t got no shape!
And now you’re lonely how you see
I’ll never be your pony ‘cause now I’m totally free!

I’m totally free...

Oh, little pretty girl

with your eyes of steel

Don’t be worry

if now I’m a little real.


And, oh my darling

Now I know exactly what (how) you feel

Don’t you cryin’

‘cause I’m totally free!


What’s your problem? What’s your name?
Say you’re changed but it’s all the same!
What’s your cover? What’s your age?
Say you’re lover but I turn this page!

You’ve got somethin’ - You’re so strong
I know nothin’ but I won’t be wrong.
And now you’re lonely - So you see
I’ll never be your honey ‘cause now I’m totally free!

I’m totally free...

Oh, little pretty girl

with your eyes of steel

Don’t be worry

if now I’m a little real.


And, oh my darling

Now I know exactly what (how) you feel

Don’t you cryin’

‘cause I’m totally free!

4 Xemxija

3/4 Gennaio 1989

31 ottobre 2006

Tempo


Tempo...
(Non possiamo farne a meno!)


Ho bisogno di tempo per amare ancora un po’
perché son cambiato molto dal tuo ultimo no.
Ho bisogno di tempo per essere come una volta
e cercar di riprendere il passo dopo quest’ultima svolta!
Ha bisogno di tempo il mangiatore di coltelli senza più appetito
come anche il clown non più divertito;
e così anche la ballerina ed il prestigiatore
vogliono il loro tempo per contare le ore!
Chiede tempo l’arbitro alla ricerca del cartellino rosso
mentre tutti i calciatori vorrebbero saltargli addosso!
E’ senza tempo la bomba che esplode in città
perché è il più grande esempio di viltà!

Pentitevi, non avete più tempo!” - dicono sempre tutti quelli che,
invece, se la prendono comoda bevendo un thè!
Ha bisogno di tempo la sposa per dire il suo si
mentre lui sta per morire lì per lì!
E vuole molto tempo questo motore per avviarsi
che, come il nostro amore, vuole un calcio per svegliarsi.
Vogliono tempo perfino i missili pronti per partire:
il tempo di un uomo che vuol far morire
il tempo degli altri, il nostro tempo!
E tu, mia cara, tu non hai mai pensato che anch’io ne avessi bisogno?

C’è voluto tempo finché mi adattassi a te:
giusto quello che ti occorreva finché ti fossi adattata a me.
C’è voluto del tempo finché imparassi ad amarti:
giusto quello che occorreva per cominciare ad odiarti!
Ha richiesto tempo perfino questa canzone per essere scritta:
giusto quello che occorreva perché io tracciassi la dura retta
tra il tuo mondo ed il mio, il tuo tempo ed io
che sono sempre accanto a te anche se non te ne accorgi!

Ha voluto tempo il presidente per mostrare il suo ultimo sorriso,
mentre in molte parti del mondo si muore perché qualcuno ha deciso
di fare la guerra invece che l’amore;
ed il tempo che resta, ormai, non ha nessun sapore!
Il tempo per capire che forse è meglio ascoltare.
Il tempo per capire che forse è meglio non parlare!

E perciò, ho bisogno di tempo per amare ancora un po’
perché son cambiato molto dal tuo ultimo no!
Voglio solo il tempo di chiedermi “Quanto tempo ho?”,
per poi farmi i conti per poter restare con te ancora un altro po’!

E, come il tempo che vola via,
fugge anche quest’ultima poesia...

Giugno-Luglio 1987

23 ottobre 2006

Silenzio... Ascolta...


Silenzio... Ascolta...
(Un incontro inaspettato?)


Silenzio...
Non lo senti che non c’è più nessuno
oltre me e te?
Non trovi sia troppo per uno
troppo a terra come me?

Perché mi dici che è diverso?

Tra noi due non è più lo stesso!

Perché mi parli di muri invisibili?

Siamo forse più insensibili?

Non pensi che sia solo un brutto giorno...
per me?
Non dà fastidio tutta questa gente intorno...
a te?

Mi dici che ti ho sorpresa

e che, forse, sei un po’ delusa...

Mi dici che ti ho incantata

per quando mi servivi e poi... buttata...

Mi dici che ti senti offesa

da questa tua lunga attesa...

Mi dici che non è niente

e che non t’importa della gente...

Ascolta...
Non senti che, ormai, non c’è più nulla
tra me e te?


30 Agosto 1988

18 ottobre 2006

Scarafaggi


«Hey Dick!»

«Ciao Mike. Anche tu qui?»

«Che vuoi farci, mi do da fare. Ma tu? Ti vedo piuttosto dimagrito e, anche a vestiti, mi sembri messo male.»

«Dopo la sciagura della settimana scorsa, noi pochi sopravvissuti siamo ridotti all’osso. Anzi, se non ti dispiace, io continuo la mia ricerca… quasi muoio dalla fame!»

«Sciagura? Che sciagura?»

«Non l’hai saputo? Hanno usato il gas.»

«Il gas? Maledetti!»

«Pare che uno di noi abbia fatto scoprire il nostro nascondiglio e ci hanno sterminati con un potentissimo gas. Accidenti, ho trovato i resti di un po’ di carne… E’ sufficiente a sfamarci per quattro giorni, ma ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a trasportarla.»

«Posso aiutarti io Dick: ho già fatto una buona scorta di carne e vegetali per quasi una settimana. Ma, dimmi di più: come è successo?»

«Diavolo Mike, e come vuoi che sia successo? Eravamo tutti presi dal progetto New Esperanto che quasi non ci siamo accorti di nulla.»

«Eravate la Colonia 16?»

«Eravamo.»

«E a che punto eravate con il progetto?»

«Eravamo sul punto che riuscivamo a capire cosa dicono questi fottutissimi bestioni. Maledizione, ma perché abbiamo scelto giusto questo posto per venire a vivere?»

«Dick, la scelta è stata fatta troppo in fretta. Avevamo davvero pochissimo tempo per scegliere un altro pianeta con le caratteristiche simili al nostro…»

«La Terra… ormai sono talmente preso dai disastri quotidiani che quasi non ci penso più. E poi, adesso, sarà già ridotta in polvere, non credi?»

«Purtroppo si. Chi si aspettava che il sole esplodesse così presto? Ricordo che, ancora 10 anni fa, la cosa sembrava del tutto improbabile.»

«Che anno era sulla Terra?»

«2324.»

«E da quanto tempo siamo qui?»

«Sono già 6 anni.»

«Maledizione, ho quasi perso il conto! Chiuso qui dentro, non riesco più a capire quando è giorno e quando è notte!»

«Noi siamo riusciti a tenere in vita qualche orologio, ma pare che, in questo posto, le giornate siano scandite da un numero diverso di ore.»

«Sono già 6 anni che vivo nel buio per non farmi scoprire… Ma che vita stiamo facendo?»

«Ringrazia il cielo di essere ancora vivo. Aspetta, prendo quella trave: ci può servire per portare meglio tutta questa carne.»

«Ma questo non è vivere.»

«Dick, avresti preferito finire polverizzato sulla Terra? Oppure preferivi perderti nello spazio durante la traversata?»

«A questo punto non lo so più… So solo che sono esausto di dormire solo tre ore al giorno e dedicarmi tutto il tempo a questi assurdi progetti senza fine.»

«Il progetto New Esperanto era un ottimo progetto. E’ importantissimo riprenderlo e portarlo a termine.»

«Ormai io non ci spero più.»

«Ma ti rendi conto che, se riusciamo a comunicare con loro, forse riusciremo a sopravvivere?»

«Cambieresti idea se li sentissi parlare. Noi siamo riusciti a codificare qualche loro conversazione e ti assicuro che c’è poco da sperare… Ci considerano quasi come degli…»

«Zitto Dick! Ho sentito muoversi qualcosa. Rimani immobile: finché siamo al buio non corriamo alcun rischio!»

«Dannazione Mike! Ho una paura dannata!»

«Fermo! Non respirare! Sta venendo qualcuno… Speriamo non faccia alcun tipo di luce.»

«Mike, è sempre più vicino, lo sento»

«Si, è quasi sopra di noi, ma ancora non si è accorto della nostra presenza… Se siamo fortunati se ne andrà così come è venuto.»

«Accidenti, sono davvero enormi!»

«Non muoverti! Forse se ne sta andando.»

«Hey Mike, ho qui con me il decodificatore per il linguaggio di questi mostri. Vuoi usarlo?»

«Perché no Dick? Voglio proprio capire cosa dicono.»

«Tieni, è un residuo del progetto New Esperanto. A me viene il voltastomaco a sentirli parlare.»

«Perché?»

«Ti posso assicurare che hanno una bassissima opinione di noi… Ci vorrebbero tutti morti.»

«Dick, pare che se ne stia andando.»

«Meno male Mike. Dai, facciamo in fretta. Voglio arrivare al più presto al nuovo rifugio e portare questo cibo che sono riuscito a trovare.»

«Sei in un nuovo rifugio adesso?»

«Si, almeno finché la zona dove ci trovavamo prima non verrà risanata. Il gas che hanno usato è stato davvero micidiale. I nostri scienziati sono certi si tratta di un nuovo tipo, certamente più potente.»

«Che effetti ha avuto?»

«Paralizzanti. E’ qualcosa che ti entra nelle ossa e non permette più di muoverti.»

«E’ stato davvero un disastro.»

«Su Mike, muoviamoci. Questa carne pesa un quintale.»

Un rumore sordo. Poi una luce improvvisa, quasi accecante, illumina tutto l’ambiente.

Improvvisamente sento un urlo agghiacciante.

Io e Dick, istintivamente, fuggiamo in due direzioni diverse, lasciando lì il nostro carico di cibo.

Vedo Dick affannarsi per proteggersi dietro un muretto, ma è troppo stanco e affamato per correre come dovrebbe. Improvviso, un oggetto enorme, impugnato dall’orrenda creatura, gli si abbatte contro. Dick riesce a schivarlo per poco ma viene colpito ugualmente sulla gamba destra troncata di netto.

Fortunatamente – penso – negli ultimi decenni la scienza bionica ha fatto enormi progressi: le tute che indossiamo riescono automaticamente ad arrestare l’emorragia e a lenire il dolore all’istante. Così Dick riprende la sua corsa in modo più affannoso e disperato ma, il secondo colpo vibrato dal mostro non gli lascia più alcuno scampo. Il mio povero amico rimane schiacciato lì, senza aver avuto nemmeno la possibilità di vedere cosa l’ha ucciso.

Io sono riuscito ad intrufolarmi in una insenatura e riesco ad osservare tutto quanto sperando di non essere stato visto.

«Se usa il gas sarò morto!» – penso. Nel frattempo mi accorgo di aver lasciato ancora inserito il decodificatore e, non so perché, decido di accenderlo.

Ed ecco che i suoni spaventosi provenienti dalla creatura diventano per me più comprensibili. Ecco che inizio a capire.

«Ne ho visti due! Che schifo! Uno l’ho schiacciato ma l’altro si è nascosto! Prendo il gas e vedrai se non esce!»

Capisco che per me è finita. Capisco l’orribile ruolo che da anni ci è toccato di vivere.

Capisco che, forse, Dick aveva ragione. Lui è ancora lì, immobile, con l’unica gamba che ha ancora qualche sussulto solo per effetto nervoso. La nostra speranza di trovare un nuovo pianeta per poter continuare la nostra vita è stata distrutta. La presenza di questi mostri non era stata nemmeno ipotizzata. E adesso ci ritroviamo a fare i conti con loro e, per loro, noi non siamo altro che… scarafaggi.



Luglio 1999

15 ottobre 2006

(All) The ways where you’re gone



(All) The ways where you’re gone


Please don’t give me just another illusion
but keep me away from all this confusion.
Please don’t give me just another hope
but help me tryin’ to find my (wasted) hope.

I wanna be another man

I wanna do all, all I can

But I don’t know what you’re looking for

and I’ve forgotten

all the things that you know.


It’s not my best humour

you know

I don’t suffer all that rumours

and I say so...



So you search me just for my money
and I called you "Oh, oh my honey"!
So now don’t you turn around me again
if you want to save just your little name.

All the things are changed

all the things are falling down

And I don’t know what you’re looking for

'cause I’ve forgotten

all the ways where you’re gone.

It’s not my best humour

you know

I don’t suffer all that rumours

and I say you so

It’s not my best humour

you see

I don’t want to ask you that

on my bended knees.

(on my bended knees)

Sailing song

It’s nothin’ than a little

sailing song

Just a sailing song

It’s all I have

it’s only a sailing song

.....................................................
.....................................................

It’s not my best humour

you know

I don’t suffer all that rumours

and I say you so

It’s not my best humour

you see

I don’t want to ask you that

on my bended knees.

(on my bended knees...)

.....................................................
.....................................................



Dicembre 1987

06 ottobre 2006

Io e lei


Io e lei
(Con lei, sarà stupendo)


E siamo già pronti
ad affrontare il viaggio,
ad affrontare il peggio
muniti di coraggio.
E senza parlare
ci avviciniamo lenti;
abbiamo gli occhi stanchi
ma siamo sempre attenti...

Si prova a cantare
per stare un po’ uniti,
per stare un po’ seduti
parlando dei feriti.
Ma senza parlare
ci addormentiamo presto;
domani andrò a cercare
ancora un altro posto... con te.

Ti siedi a me vicino

cercando un po’ d’affetto;

mi prendi la chitarra:

non vuoi andare a letto.

Mi chiedi: “dai, suona

quel tuo motivo lento:

non essere più triste

‘ché domani sarà stupendo insieme a te”!

E ci raccontiamo
in po’ dei nostri giorni,
un po’ dei nostri anni
e dei nostri ritorni.
Ma, senza parlare
ci conosciamo meglio,
ci rivediamo dentro
e so che non mi sbaglio... perché:

Ti siedi a me vicino

cercando un po’ d’affetto;

mi prendi per la mano:

mi vuoi portare a letto!

Ti dico: “sei mia:

sei bella più del sole;

non sono più triste

‘ché domani sarà migliore insieme a te”!


27 Luglio 1988

03 ottobre 2006

La casa del gigante (terza e ultima parte)

Siamo arrivati ad uno spiano e davanti a noi c’è una casa in pietra lavica che sembra essere abbandonata. Ci abbassiamo per non essere visti e ci mettiamo un po’ più vicini.

Guardo il cielo che sembra quasi schiacciarci al suolo; è di un colore azzurro intenso e non si vede nemmeno una nuvola nemmeno a pagarla! La sua immensità mi fa quasi paura che smetto subito di guardarlo per cercare alcuni riferimenti che possano tranquillizzarmi.

«A che altezza saremo?» – penso e nel frattempo, girando la testa verso destra, riesco a vedere il carcere nuovo. «E’ davvero un bel posto dove costruire un carcere: anche se scappano, dove possono andare? Qui c’è solo la montagna e da qui non si va da nessuna parte» – rifletto e mi accorgo che, accanto a me, ci sono alcune piante di avena selvatica. Istintivamente ne strappo un po’ e la getto alle spalle di Davide che, nel contempo, si è girato per dire qualcosa a Puccio, secondo me, sempre troppo distratto sulla nostra missione. Le piccole spighe di questa strana pianta si attaccano sul suo maglione grigio e un paio finiscono sui pantaloni di velluto viola, proprio all’altezza del sedere. Mi scappa una risatina spontanea che riesco a trattenere a malapena girandomi verso Marcello che, notando tutto, mi sorride mostrandomi un OK con la mano destra.

D’improvviso un fischio ci paralizza tutti e quattro.

Nero si alza sulle sue zampe, drizza le orecchie e punta verso il sentiero che ci ha portato fin qui. Dopo un paio di secondi inizia a correre tornando indietro da dove siamo venuti.

«Accidenti!» – bisbiglio io – «E adesso che facciamo?»

«Non preoccuparti» – risponde mio fratello – «Non ce ne sarà bisogno: qui non c’è nessuno.»

È vero. Non c’è nessuno; la casa sembra proprio deserta: senza porta né finestre, ha davvero l’aria di essere stata abbandonata da anni.

Ci mettiamo in piedi.

«Ma allora non è vero che sta qui.» – inizia Puccio – «Sono le solite storie che racconta mio cugino.»

«Forse si» – gli risponde Marcello.

«E le pecore allora?» – chiedo io.

«Che c’entrano le pecore, Alessandro?» – interviene Davide.

«Dove stanno?»

«Le avranno portate via.»

«Ma da qui non si va da nessuna parte.»

«Che ne so io! Piuttosto cerchiamo di tornare che nostra madre si preoccupa.»

«Aspettate.» – ci interrompe Marcello – «Qui c’è qualcosa che non mi convince. Guardate: li l’erba è tutta bruciata.»

«Hai ragione.» – confermo io – «Cosa significa secondo te?»

«Non lo so ma non mi piace. Forse potrebbero essere atterrati gli UFO su questa montagna.»

Mi sento raggelare. Gli UFO? E come sono fatti questi UFO? Nessuno lo sa o, meglio, nessuno è mai tornato indietro per raccontarlo. Ma io non mi sento pronto per affrontare gli UFO. Non lo sono nemmeno per affrontare il gigante e sinceramente desidero tantissimo tornare indietro.

«Avviciniamoci alla casa; forse li troveremo qualche cosa.»

«Noi dobbiamo tornare» – dichiara schiettamente Puccio. «Io e Davide dobbiamo uscire con nostra madre.»

Detto questo, alzandosi in piedi, torna indietro per la strada che, pochi minuti prima, aveva preso anche Nero. Davide lo segue dopo averci salutato con un gesto della mano.

«E adesso? Come al solito ci hanno lasciati soli.» – inizio io un po’ seccato.

«Puccio non mi è mai sembrato molto convinto di salire qui. Facciamo così: ci avviciniamo a quella casa, vediamo cosa c’è dentro e poi ce ne torniamo anche noi; va bene?»

In fondo la cosa sembra semplice. «OK» – gli dico – «però sbrighiamoci.»

Ci alziamo e, con circospezione, ci avviciniamo alla casa.

Sento i miei piedi pesanti, come se dentro le scarpe ci fossero chili di terra, e il mio respiro è un po’ affannoso per via dell’odore intenso emanato da tutta questa vegetazione selvatica che ci circonda. Ma soprattutto sono stordito da tutto questo… silenzio! Un silenzio pesante, quasi opprimente, che mostra tutto quello che mi circonda in un modo surreale e fantastico.

Quanti metri ci separano ancora dalla casa? Dieci? Venti? Duecento?

La verità è che mi sembra di camminare da ore ma continuo a vedere quel mucchio di pietre immobile, come se, invece, non mi fossi mosso nemmeno di un solo passo.

Guardo il cielo che, adesso, sembra essere diventato bianco. Gli uccelli volano bassi ma tutti i suoni sono ovattati e sembrano provenire da mondi lontani, tempi infinitamente lunghi.

Mi volto e vedo ancora il carcere che adesso mi sembra lontanissimo. Sento un improvviso bisogno di orinare e mi chiedo se riuscirò a tenerla finché non saremo tornati indietro, ammesso di farcela.

Vedo mio fratello abbassarsi di scatto e, d’istinto, lo faccio anch’io. Siamo davvero giunti alla casa: la casa del gigante.

Noto una lucertola che si infila tra due sassi che fanno parte della struttura dell’abitazione e subito penso che andrà di sicuro a infilarsi sotto il letto o, magari, dietro il gabinetto in attesa di poter uscire di nuovo.

Da dentro non si sente nulla: la casa è davvero disabitata.

Ci alziamo lentamente e cerchiamo di guardare da dentro un’apertura formatasi a causa di alcune pietre mancanti.

Dentro è molto buio e riesco a distinguere ben poche cose: c’è una sedia in fondo, con lo schienale appoggiato al muro; c’è anche un mobile rozzo sul lato sinistro con sopra delle corde.

«Servono per legare gli intrusi» – penso e Marcello, quasi sentendo il mio pensiero, annuisce con aria preoccupata.

Continuo a sentire solo dei suoni molto deboli, come se passassero da un filtro di gommapiuma, e non riesco ancora a spiegarmi il motivo. Guardo ancora dentro e vedo un’altra cosa che mi fa sussultare: proprio di fronte a noi, sul lato parallelamente opposto al nostro, c’è l’entrata della casa; una porta di legno semi distrutta chiude un uscio di forma irregolare facendo comunque passare attraverso alcuni fasci di luce che rendono tutto ancora più tetro.

In questa casa potrebbe esserci qualsiasi cosa e noi stiamo cercando di vederlo da questo buco. Osservo ancora le pietre che compongono il muro e poi guardo mio fratello che sembra volermi dire qualcosa. Si agita molto e pare quasi urlarmi in faccia, ma io non riesco a sentirlo. Lo guardo, ancora intontito, fino a quando sento un fischio, stavolta proveniente dall’altro lato della casa.

D’improvviso una gran quantità di suoni e rumori sembrano arrivare tutti alle mie orecchie e l’impatto mi immobilizza.

Sento il vento, gli uccelli, i clacson delle auto in lontananza – che girano intorno al carcere – e, soprattutto, sento delle campane.

«Sono le pecore: il gigante è qui» – adesso riesco a sentire anche mio fratello e capisco subito il suo stato di agitazione. «Andiamocene di corsa.»

Non me lo faccio ripetere un’altra volta: mi alzo e mi preparo mentalmente quella che ha tutta l’aria di essere una ritirata strategica.

«Finalmente ce ne andiamo» – penso – «Ora ce ne scappiamo di gran corsa!» – mentre vedo già mio fratello precedermi.

Sto per mettere le ali ai piedi quando sento ancora un altro rumore: qualcuno sta aprendo la porta. Quest’ultimo evento mi fa pensare che avrei battuto tutti i record di corsa in discesa dalle montagne, ma ancora non mi muovo.

«Aspetterò finché non entra per vedere com’è fatto» – continuo a pensare ciclicamente e ripetendomi ogni volta che devo essere impazzito. «Non mi prenderà.»

Mi volto nuovamente verso l’apertura e vedo la porta aprirsi.

I pochi fasci di luce lasciano il posto ad un rettangolo abbagliante. Al centro riesco a distinguere un’ombra.

Sgrano gli occhi, cerco di mettere a fuoco, ma non riesco a vedere meglio di una macchia scura circondata da un bagliore accecante. Sento però di essere visto da lui che, immobile, mi fissa dall’uscio di casa sua.

Non so quanto tempo siamo rimasti a guardarci ma giuro che è stato abbastanza.

Sento le mie gambe muoversi e portarmi lontano da quella casa, come se fossero guidate da un’altra volontà. Chiunque sia a farmi correre adesso, credo che abbia indiscutibilmente ragione.

Finalmente mi volto per vedere dove stavo correndo: vedo fili d’erba secca alzarsi in aria, terra e polvere sollevarsi ad ogni mio passo, insetti di ogni tipo passarmi tra i capelli. Ma non importa: finalmente me ne stavo andando e nessuno sarebbe riuscito a prendermi.

Quasi raggiungo mio fratello e ci ritroviamo al punto dove Puccio e Davide ci avevano abbandonato: adesso inizia la parte più ripida ma per noi è uno scherzo.

Mi giro verso la casa che adesso mi sembra così lontana…


– o – o – o – o – o –


«Muoviti scimunito! Non lo vedi che sei in mezzo alla strada?»

«Chi?… Cosa?…» – Mi sento cadere da un’altezza indescrivibile, ritrovandomi di fronte ad una strada incredibilmente larga e impensabilmente lunga. Credo di aver sognato davanti ad essa, con la mia ventiquattrore adesso pesantissima – fino a trenta secondi fa non pesava quasi nulla – e con un’aria, appunto, da scimunito.

Mi sposto per far passare il mio cortese amico che mi ha riportato nel mondo reale senza guardarlo con cattiveria. Lui, invece, sembra aver bevuto il caffè con il sale.

Sto per riprendere a camminare, poi mi volto per un’ultima volta.

Dov’era il deposito di mio padre, adesso c’è un negozio in franchising di informatica; dov’era la stradina senza sbocco che curvava a sinistra, adesso c’è uno slargo a quattro corsie che immette alla circonvallazione.

La montagna non c’è più.

Chissà poi se era davvero una montagna; certamente sarà stata una collinetta alta non più di venti metri.

E il gigante? Che fine avrà fatto?

Sorrido pensando contemporaneamente due cose: la prima è che, se si potesse avere la fortuna di scegliere un posto dove morire, io sceglierei sicuramente questo; l’altra è che, se veramente è esistito un gigante della montagna, io sono stato l’unico a vederlo.

26 settembre 2006

La casa del gigante (seconda parte)

Eccoci di nuovo: abbiamo lasciato le nostre biciclette ai piedi della montagna e stiamo prendendo gli ultimi accordi sul da farsi.

Ho un po’ paura, non lo nego, ma non posso mostrarmi pauroso davanti agli altri. Anche se sono il più piccolo del gruppo, non posso permettermi di lasciar capire agli altri nemmeno un briciolo dell’incredibile terrore che ho dentro.

Mio fratello, Marcello, sembra invece molto tranquillo. Potessi averlo io un po’ del suo coraggio. Ma è anche vero che lui ha quasi quattro anni più di me; ed io ne ho solo cinque!
Puccio ha quasi l’età di Marcello e se penso a come si sono conosciuti mi viene sempre da ridere.

«Non mi hai preso!» – diceva mio fratello. E lui continuava a buttargli dal suo balcone tutto ciò che gli capitava tra le mani: piccole pietre prese dai vasi di fiori, tappi, palline di carta, soldatini di plastica. Che sciocco: non si rendeva conto che stava donando a mio fratello quello che lui più adorava: i soldatini di plastica. «Non mi hai preso!» – gli ripeteva Marcello – «Non hai una buona mira!» – lo canzonava; e lui continuava a buttargli i suoi giocattoli pur di prenderlo in testa una buona volta…

Suo fratello Davide ha un anno in più di me. Parla pochissimo ma, in compenso, è in gamba con la bici. E’ stato lui che mi ha presentato Alessio, quel ragazzo altissimo che riesce a far scivolare le ruote della sua bicicletta frenando e piegandosi da un lato. Sono sicuro di riuscirci anch’io, ma la mia Graziella ha ancora i freni rotti e, frenando con le scarpe, non riesco ad ottenere lo stesso effetto.

Sono le quattro del pomeriggio. Il sole picchia forte ma non brucia. Tra un mese sarà estate e la montagna è piena di campanelle e stacci: il massimo per noi. Ma adesso non abbiamo tempo per mangiare qualche campanella, soffiandoci prima per togliere qualche formica che quasi sempre si trova dentro, né tanto meno è il momento di raccogliere stacci per vedere chi ha il più lungo.

Adesso è il momento di essere seri e molto concentrati. Io lo sono tantissimo: un piccolo errore e rischiamo di farci prendere da lui. E questa è l’ultima cosa che vorrei: chi viene preso o viene mangiato subito oppure viene trasformato in pecora in attesa per sfamarlo. E ce ne sono tante di pecore sopra la montagna! Non le ho mai viste ma le loro campane le ho sentite tante volte!

«Forse è meglio se ci portiamo Nero con noi» – propongo.

«Ottima idea Ale» – mi fa Marcello – «ci penserai tu.»

Nero è il nostro cane. Qualcuno ci ha detto che è un lupo e a noi sta benissimo. Mio padre lo ha trovato per strada, lo ha curato e lo ha cresciuto. Solo un anno fa per me era impensabile avvicinarmi a lui; anche se non mi ha mai mostrato i denti, i suoi occhi mi mettevano una certa fifa addosso che non mi faceva allontanare di un solo metro dalla scrivania dove lavora mia madre. Adesso, anche se con prudenza, siamo inseparabili: l’importante è non disturbarlo troppo mentre mangia, non schioccare le dita in sua presenza (una cosa che lo innervosisce tantissimo) e non fare neanche finta di far del male a mio padre o mio zio o Santo, il mio cugino spilungone che lavora per noi. Due mesi fa, proprio per questo, il nostro lupo si è rotto di nuovo una zampa: un amico di mio zio, scherzando, ha fatto finta di volergli dare un pugno; Nero, che si trovava nell’abitacolo del camion, si era precipitato fuori saltando dal finestrino mezzo abbassato ma, atterrando, ha poggiato male la zampa, già rotta sei mesi prima, ed è rimasto a terra.

«Beh, mi sa che siamo pronti» – conclude mio fratello – «Mi raccomando però: al minimo pericolo ce la squagliamo, va bene? Abbiamo tutti le scarpe da tennis?»

«Ho messo queste che hanno un battistrada enorme» – gli risponde Puccio, alzando in aria un piede e mettendo in bella mostra la suola di gomma delle sue splendide Mecap nere con delle strisce azzurre.

«Anch’io ho le Mecap» – faccio io guardando, con una certa tristezza, il paio di scarpe correttive che invece mi ritrovo ai piedi. «A casa però.» – concludo cercando un conforto da parte di Marcello.

«Sono migliori le scarpe che porti adesso, Ale.» – risponde puntuale alla mia richiesta – «In caso di pericolo, puoi dare dei calci davvero micidiali.»

Gli sorrido; entrambi sappiamo che il primo a provare direttamente la potenza delle mie scarpe abbinata alla forza di un calcio è stato proprio lui, qualche giorno dopo l’acquisto delle stesse.

Ma adesso siamo davvero pronti. Chiamo Nero e, accarezzandolo, lo assicuro accanto a me. Iniziamo a salire mantenendoci un po’ curvati per equilibrio e cercando di avere sempre le mani libere. La terra, secca di settimane di sole, frana sotto i miei piedi impolverando le scarpe nere. Ho subito la sensazione di averne un po’ anche dentro la mia scarpa destra, ma non posso proprio fermarmi adesso per toglierla. Non fa male ma è un po’ fastidiosa.

Sono il secondo del gruppo, subito dopo Marcello. Dietro me ci sono Davide e Puccio che continua a guardare verso casa; siamo quasi all’altezza del balcone di casa sua. Il sole si riflette sui vetri delle porte chiuse della sua camera e non mi fa vedere bene se, dietro la tenda, c’è ancora sua madre che ci osserva.

«Comunque, fra poco non potrà più vederci» – penso – «stiamo salendo ancora: stiamo andando a casa sua.»

Nel contempo si fa sempre più forte dentro me l’idea di trovare una buona scusa per tornare indietro. Poi mi convinco che non può essere più rimandato questo appuntamento e, costi quel che costi, oggi saremmo riusciti a vedere in faccia il gigante della montagna.

23 settembre 2006

La casa del gigante (prima parte)


«Sei proprio sicuro di volerlo fare?»

«Oggi è la giornata ideale. Puccio mi ha detto che stamattina ha visto qualcosa muoversi.»

«Era lui?»

«E chi lo sa? Potrebbe anche essere qualcuno che voleva vederlo… e non è più tornato! Puccio non ha visto nessuno scendere.»

«Guarda: stanno arrivando. Ma sono solo Puccio e Davide. Dov’è loro cugino?»

«Sua nonna non lo avrà lasciato uscire… Poverino, non può allontanarsi mai da casa.»

«Forse è meglio che siamo solo noi quattro. Del resto, siamo noi i veri amici!»

«Hai ragione. Siamo noi i veri amici!»