Eccoci di nuovo: abbiamo lasciato le nostre biciclette ai piedi della montagna e stiamo prendendo gli ultimi accordi sul da farsi.
Ho un po’ paura, non lo nego, ma non posso mostrarmi pauroso davanti agli altri. Anche se sono il più piccolo del gruppo, non posso permettermi di lasciar capire agli altri nemmeno un briciolo dell’incredibile terrore che ho dentro.
Mio fratello, Marcello, sembra invece molto tranquillo. Potessi averlo io un po’ del suo coraggio. Ma è anche vero che lui ha quasi quattro anni più di me; ed io ne ho solo cinque!
Puccio ha quasi l’età di Marcello e se penso a come si sono conosciuti mi viene sempre da ridere.
«Non mi hai preso!» – diceva mio fratello. E lui continuava a buttargli dal suo balcone tutto ciò che gli capitava tra le mani: piccole pietre prese dai vasi di fiori, tappi, palline di carta, soldatini di plastica. Che sciocco: non si rendeva conto che stava donando a mio fratello quello che lui più adorava: i soldatini di plastica. «Non mi hai preso!» – gli ripeteva Marcello – «Non hai una buona mira!» – lo canzonava; e lui continuava a buttargli i suoi giocattoli pur di prenderlo in testa una buona volta…
Suo fratello Davide ha un anno in più di me. Parla pochissimo ma, in compenso, è in gamba con la bici. E’ stato lui che mi ha presentato Alessio, quel ragazzo altissimo che riesce a far scivolare le ruote della sua bicicletta frenando e piegandosi da un lato. Sono sicuro di riuscirci anch’io, ma la mia Graziella ha ancora i freni rotti e, frenando con le scarpe, non riesco ad ottenere lo stesso effetto.
Sono le quattro del pomeriggio. Il sole picchia forte ma non brucia. Tra un mese sarà estate e la montagna è piena di campanelle e stacci: il massimo per noi. Ma adesso non abbiamo tempo per mangiare qualche campanella, soffiandoci prima per togliere qualche formica che quasi sempre si trova dentro, né tanto meno è il momento di raccogliere stacci per vedere chi ha il più lungo.
Adesso è il momento di essere seri e molto concentrati. Io lo sono tantissimo: un piccolo errore e rischiamo di farci prendere da lui. E questa è l’ultima cosa che vorrei: chi viene preso o viene mangiato subito oppure viene trasformato in pecora in attesa per sfamarlo. E ce ne sono tante di pecore sopra la montagna! Non le ho mai viste ma le loro campane le ho sentite tante volte!
«Forse è meglio se ci portiamo Nero con noi» – propongo.
«Ottima idea Ale» – mi fa Marcello – «ci penserai tu.»
Nero è il nostro cane. Qualcuno ci ha detto che è un lupo e a noi sta benissimo. Mio padre lo ha trovato per strada, lo ha curato e lo ha cresciuto. Solo un anno fa per me era impensabile avvicinarmi a lui; anche se non mi ha mai mostrato i denti, i suoi occhi mi mettevano una certa fifa addosso che non mi faceva allontanare di un solo metro dalla scrivania dove lavora mia madre. Adesso, anche se con prudenza, siamo inseparabili: l’importante è non disturbarlo troppo mentre mangia, non schioccare le dita in sua presenza (una cosa che lo innervosisce tantissimo) e non fare neanche finta di far del male a mio padre o mio zio o Santo, il mio cugino spilungone che lavora per noi. Due mesi fa, proprio per questo, il nostro lupo si è rotto di nuovo una zampa: un amico di mio zio, scherzando, ha fatto finta di volergli dare un pugno; Nero, che si trovava nell’abitacolo del camion, si era precipitato fuori saltando dal finestrino mezzo abbassato ma, atterrando, ha poggiato male la zampa, già rotta sei mesi prima, ed è rimasto a terra.
«Beh, mi sa che siamo pronti» – conclude mio fratello – «Mi raccomando però: al minimo pericolo ce la squagliamo, va bene? Abbiamo tutti le scarpe da tennis?»
«Ho messo queste che hanno un battistrada enorme» – gli risponde Puccio, alzando in aria un piede e mettendo in bella mostra la suola di gomma delle sue splendide Mecap nere con delle strisce azzurre.
«Anch’io ho le Mecap» – faccio io guardando, con una certa tristezza, il paio di scarpe correttive che invece mi ritrovo ai piedi. «A casa però.» – concludo cercando un conforto da parte di Marcello.
«Sono migliori le scarpe che porti adesso, Ale.» – risponde puntuale alla mia richiesta – «In caso di pericolo, puoi dare dei calci davvero micidiali.»
Gli sorrido; entrambi sappiamo che il primo a provare direttamente la potenza delle mie scarpe abbinata alla forza di un calcio è stato proprio lui, qualche giorno dopo l’acquisto delle stesse.
Ma adesso siamo davvero pronti. Chiamo Nero e, accarezzandolo, lo assicuro accanto a me. Iniziamo a salire mantenendoci un po’ curvati per equilibrio e cercando di avere sempre le mani libere. La terra, secca di settimane di sole, frana sotto i miei piedi impolverando le scarpe nere. Ho subito la sensazione di averne un po’ anche dentro la mia scarpa destra, ma non posso proprio fermarmi adesso per toglierla. Non fa male ma è un po’ fastidiosa.
Sono il secondo del gruppo, subito dopo Marcello. Dietro me ci sono Davide e Puccio che continua a guardare verso casa; siamo quasi all’altezza del balcone di casa sua. Il sole si riflette sui vetri delle porte chiuse della sua camera e non mi fa vedere bene se, dietro la tenda, c’è ancora sua madre che ci osserva.
«Comunque, fra poco non potrà più vederci» – penso – «stiamo salendo ancora: stiamo andando a casa sua.»
Nel contempo si fa sempre più forte dentro me l’idea di trovare una buona scusa per tornare indietro. Poi mi convinco che non può essere più rimandato questo appuntamento e, costi quel che costi, oggi saremmo riusciti a vedere in faccia il gigante della montagna.